Qualche giorno fa scrissi per ricordare i caduti di Acca Larentia. Oggi, 10 gennaio, bisogna rendere omaggio alla memoria di un altro ragazzo morto tragicamente: Alberto Giaquinto, nato a Roma il 5 ottobre 1962; spirato a Roma il 10 gennaio 1979.
In quel giorno maledetto si teneva un corteo di protesta dei ragazzi del Fronte della Gioventù. Gridavano la proprio insoddisfazione contro lo Stato che non aveva ancora trovato i responsabili della Strage di Acca Larentia e che, al tempo stesso, tesseva le proprie trame sulla pelle di quei ragazzi e di tanti altri. Sfilavano anche contro l'orda di compagni, riversatisi per le strade per devastare tutte le sedi del Movimento Sociale Italiano a seguito di un drammatico fatto di sangue che aveva visto per protagonisti i N.A.R.
I giovani missini volevano prendere le distanze da quanto avvenuto in precedenza e dire "basta" una volta per tutte al sangue nelle strade, alla logica degli opposti estremismi, all'incitamento all'odio politico, alla caccia all'uomo. Marciavano, forti delle loro idee e di niente altro. Ciò malgrado due poliziotti accorsero sul posto. Uno di loro, sceso dall'auto, estrasse la pistola dalla fondina e sparò ad altezza d'uomo. Il colpo raggiunse la nuca del diciottenne Alberto Giaquinto, che cadde a terra in un lago di sangue. Si spense poche ore dopo in ospedale. Gli agenti dissero che era armato di P38. Legittima difesa, insomma. Peccato che nessuna arma venne mai rinvenuta addosso al giovane, né proiettili, né altro. Niente di niente.L'autopsia, per giunta, stabilì che Alberto era morto a causa di un proiettile entrato dalla regione occipitale ed uscita da quella frontale a distanza ravvicinata. Tradotto: scappava, anziché affrontare i poliziotti armi in pugno. In questo senso anche le testimonianze dei presenti. Questo, signori miei, è omicidio.
Eppure, la Cassazione nel 1988 condannò l'agente di pubblica sicurezza, tale Aldo Speranza, per "eccesso di legittima difesa". Come la Suprema Corte sia addivenuta ad un simile conclusione resta un mistero, dato che, essendo Alberto Giaquinto disarmato e pure in fuga, non si capisce quale possa essere stata l'offesa nei confronti dei poliziotti. In altre parole, rimane il dubbio che si sia trattato di una sentenza di comodo, buona per mettere a tacere l'opinione pubblica e lavare le coscienze degli interessati.
Francamente, in questo caso me ne frego delle decisioni dei tribunali. Alberto è un altro ragazzo che se ne è andato troppo presto, un'altra vittima innocente di quegli anni maledetti, dominati dall'antagonismo politico. Voglio ricordarlo così: ancora giovane, coi suoi capelli biondi ribelli, ancora in giro per Roma a fare attivismo politico, in compagnia dei suoi camerati. Sono ancora tutti insieme loro. Ridono, scherzano, discutono. Pensano al futuro: lo immaginano più bello, più giusto, più razionale. Combattono, insomma, proprio come noi e insieme a noi. Per sempre. Non dimentichiamoli, almeno noi.
Roberto Marzola.
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e chi può dimenticarli? "noi" no di certo. c'è una cosa che mi rattrista, però: la scarsa memoria dei congiunti delle vittime e dei loro vecchi camerati. persone che hanno fatto del sangue versato il loro trampolino di lancio per il raggiungimento di posizioni altrimenti insperate. questa è l'offesa più grave che i nostri eroi potessero subire e che, purtroppo, hanno subito. a noi il compito di tenerli in vita, a noi il compito di non rendere vana la morte di chi la seppe affrontare con il sorriso sulle labbra ed un'idea immortale nel cuore.
RispondiElimina"Nel loro nome, la nostra lotta". Una frase quanto mai azzeccata.
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