Ad ogni modo, vi propongo una ricerca che ho condotto sulle gesta partigiane di Giorgio Bocca, da poco scomparso, che sono sconosciute ai più...Tanto per cambiare!
QUELLE CONDANNE A MORTE FIRMATE DA
GIORGIO BOCCA
Il giorno di Natale, come saprete, si è spento Giorgio Bocca. In molti lo hanno ricordato come uno dei più influenti giornalisti a livello nazionale; tanti altri, invece, per la sua partecipazione alla lotta partigiana nelle formazioni di “Giustizia e Libertà”, che aveva contribuito a fondare. Solo qualcuno si è soffermato sul suo passato di fascista e antisemita, oltre che sul suo odio per il Meridione. Al contrario, praticamente nessuno ha rinfrescato la memoria all’opinione pubblica sulle sue “gesta” come giudice del popolo a guerra finita.
Per questo motivo forse qualcuno di voi scoprirà con grande sorpresa che il sig. Bocca nel 1945, (ripeto: a guerra finita), divenne responsabile di uno dei tanti tribunali partigiani che si erano costituiti tanto in montagna quanto in pianura. Tribunale è un nome che non deve trarre in inganno: difatti, i tribunali partigiani, checché se ne dica, non avevano la minima parvenza di legalità e giustizia, né formale, né sostanziale. Operavano con disinvoltura, decretando pene severe e numerose condanne a morte. Per rendere bene l’idea, si può prendere brevemente in considerazione cosa scrive il partigiano Ermanno Gorrieri nel suo libro “La Repubblica di Montefiorino” : "La lettura dei verbali dei processi non può non suscitare qualche perplessità. La loro forma alquanto approssimativa denota l'assenza, nel Tribunale partigiano, di qualsiasi esperto della materia: giudici, avvocati, laureati in legge. Inoltre, mentre talora si dice che vengono letti ‘i verbali di istruttoria’, come pure la deposizione dei testi, in altri casi non si parla di deposizioni: il che fa supporre (ed è confermato dalle testimonianze ) che l'unico elemento di accusa fosse la confessione dell'imputato. E questo pone il problema del come fossero ottenute queste confessioni. Si può dunque affermare che la giustizia partigiana non funzionò in modo del tutto soddisfacente, neppure nella seconda repubblica di Montefiorino."
Ed è in questo clima che si muove Giorgio Bocca. Nei primi mesi del 1945 si trovò a giudicare le sorti di Adriano Adami della Divisione Alpina Monterosa e di quattro suoi commilitoni, tutti sottufficiali: Frison, Lanza, Giminiani, Alongi. Insieme a loro vi era una donna, un’ausiliaria del S.A.F. che rispondeva al nome di Marcella Catrani e che pare fosse la fidanzata dell’Adami. I sei erano stati catturati dopo che il 26 aprile 1945 il Maggiore Molinari, consegnò il reparto ai partigiani, spingendo Adami e gli altri ad un disperato tentativo di fuga. Vennero intercettati sulle montagne e ne seguì uno scontro a fuoco, che vide il successo delle formazioni di Giustizia e Libertà, superiori nel numero. Deposte le armi, i reduci della Divisione Alpina Monterosa vennero fatti prigionieri e scortati presso Paesana, nel cuneese. Fu lì che Adami venne identificato e venne “legato, pestato e torturato. Tutto il gruppo dei prigionieri fu poi trasferito nella locale scuola comunale; sembrava che tutti fossero pervasi da frenesia di vendetta e di odio poiché il paese era stato poco tempo prima incendiato per rappresaglia dai tedeschi. Il gruppo fu sottoposto ad un primo interrogatorio durante il quale Pavan, (nome in codice di Adami, ndr), si prese tutta la colpa. La mattina seguente, i prigionieri furono caricati su un autocarro e portati a Saluzzo, presso il campo di concentramento della Caserma «Musso». Durante quest’ultimo trasferimento, la folla, ingiuriosa e violenta, rallentò più volte la colonna; sintomatico questo di una forte pressione e pretesa di ‘giustizia’ da parte della stessa popolazione civile indotta a chiedere il saldo del conto agli uomini ritenuti responsabili di tanti patimenti”(fonte). Il parroco di Paesana, don Giuseppe Ghio, scrisse nel suo diario: “Vedo un formicolio di uomini, donne, ragazzi e centinaia di visi stravolti dall’odio, dalla vendetta...Poco dopo, il tenente Adami, legato ai polsi e con una corda al collo, viene portato in giro, dietro lo steccato, per soddisfare le richieste della folla che vuole vederlo da vicino e gettargli in faccia tutto il suo disprezzo” (fonte).
A fine aprile si aprì il processo presso il campo di concentramento sito all'interno della Caserma Musso di Saluzzo (CN). A condurlo furono gli stessi carcerieri. Tra di essi vi era, (lo ripeto ancora), Giorgio Bocca, che non aveva nemmeno avuto il coraggio di dare le sue generalità, limitandosi ad identificarsi col suo nome di battaglia. Chiamarono gli imputati a difendersi e questi lo fecero come meglio poterono. La condanna, tuttavia, era già stata scritta nel momento della cattura e il verdetto fu unanime: condanna a morte con fucilazione alla schiena per Lanza, Giminiani, Alongi e, ultimo, Adami per “aver condotto con particolare accanimento e crudeltà la lotta antipartigiana, incendiando case, procedendo al denudamento di donne, maltrattando prigionieri e civili, e commettendo crudeltà varie sia nei confronti di partigiani che di borghesi”. Questo fu quanto sostenne il tribunale partigiano che, però, non formulò nessuna accusa di omicidio. Di diverso avviso Gianpaolo Pansa, il quale in “I gendarmi della memoria”, (Sperling & Kupfer, 2007, p. 63 e ss., consultabile qui), scrive che le ragioni, (quelle vere, non quelle pretestuose), furono ben altre: “Adriano Adami, un perugino di 23 anni, studente universitario e ufficiale dello stesso battaglione […] è diventato la bestia nera dei partigiani nelle due vallate. Perché? […] Adami comandava una compagnia del battaglione ‘Vestone’ […] e all’inizio di novembre si era rifiutato di passare ai partigiani, come avevano fatto molti alpini di quel battaglione. Quando il ‘Vestone’ cessò di esistere, il 15 novembre 1944 Adami venne inviato al ‘Bassano’, con quaranta alpini del vecchio reparto. Qui gli diedero il comando della 9a compagnia. […] L’incarico era delicato e pesante, soprattutto in un’area dove la guerriglia partigiana stava diventando molto aggressiva. Bisognava mettere in atto una controguerriglia quotidiana, che aveva come scopo principale la cattura di partigiani, a cominciare dai comandanti delle bande. In questo compito, Adami si dimostrò coraggioso ed efficiente. Il suo reparto contava una sessantina di uomini. E tra questi c’era il maresciallo Frison. Era fatale che Adami diventasse l’uomo nero dei partigiani. Fare la controguerriglia comportava interventi rapidi e duri. A ‘Pavan’ vennero attribuite nefandezze orrende. Ma erano quasi sempre leggende senza fondamento, tanto che al momento del processo davanti al tribunale partigiano, costituito dai comandi della 11a Divisione Garibaldi e della 2a Divisione Alpina di Giustizia e Libertà, non gli venne imputato nessun omicidio”.
Così, il 2 maggio Adami fu condotto con i suoi Camerati sul luogo dell’esecuzione. Allorché il capo del plotone diede l’ordine del fuoco, Pavan lo interruppe per invitare tutti i condannati a gridare: “Viva l’Italia Grande!”. Seguirono le raffiche di mitra e i colpi di grazia. Mentre Adami e gli altri perivano, Marcella Catrani “fu deferita al tribunale del popolo e trattenuta ancora per alcuni mesi di prigionia, periodo in cui subì sevizie e violenze sessuali ripetute da parte dei partigiani” (fonte). Vale giusto la pena sottolineare che i partigiani, non essendo legittimi combattenti alla luce del diritto internazionale, non avevano alcun diritto di processare e condannare dei combattenti legittimi come erano quelli della Repubblica Sociale Italiana, circostanza che li avrebbe obbligati a consegnare i prigionieri ai comandi alleati. Ma così non fu…
Si dice che la storia sia “magistra vitae”. Se così è, insegna senz’altro a cercare esempi di coraggio, lealtà, fede, tenacia e umanità in tutte le direzioni tranne che in quella verso cui si mossero i partigiani italiani, capitanati da Giorgio Bocca. Da cotanta infamia nasce l’attuale stato, che vanta la “più bella costituzione del mondo”, (o almeno così dicono). Di queste gesta si è macchiata “una delle più grandi penne d’Italia”. Ma quanta falsità, quanta perfidia e quanta ideologia c’è in questi giudizi? Possibile che a più di 60 anni da quegli eventi ancora non si sia giunti a riportare la verità e a restituire dignità e memoria a così tanti uomini e donne, caduti sotto i colpi dell’odio? Per queste mie indagini mi chiamano “passatista”. A costoro rispondo con le parole del filosofo George Santayana, il quale disse che “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”. E, difatti, sembra proprio che siamo tornati al clima di odio, alla caccia al fascista. Studiate quindi, gente, studiate e non fidatevi mai delle versioni di partito della storia!
Roberto Marzola.
più conosco i fatti e più sono consapevole che il mio odio verso questa gente è più che motivato. E' sintomatico che parole obbiettivamente negative come partigiano (fazioso) e disertore siano diventate per loro motivo di vanto... Contenti loro...
RispondiEliminaCalogero Trento
il comportamento di bocca è simile a quello di tanti altri ex fascisti, che avvertito il cambiamento del vento, seppero crearsi una nuova idendità. per riuscire nel loro intento dovettero, più di altri, dimostrare la loro ferrea determinazione antifascista senza porsi alcun problema di ordine morale. la vita e la morte dei loro ex camerati non aveva alcun peso per le loro coscienze "redente". l'unico scopo, da raggiungere a qualunque prezzo, era la loro stessa sopravvivenza e le agevolazioni che ne sarebbero seguite in un prossimo futuro. bocca ne fu un esempio luminoso. il livore manifestato contro i suoi ex camerati lo vide artefice di nefendazze uniche che seppe protrarre negli anni successivi grazie all'uso di una penna propensa alla falsità ed ad una partigianeria carnale. per anni è stato celebrato come giornalista eccelso e come comandante invitto. ora ne piangono la morte, l' assenza insostituibile. per quanto mi riguarda è solo morto, tardi, uno dei tanti assassini dalla camicia rossa e dalla coscienza sporca. mi piacerebbe tanto sapere quale accoglienza gli hanno riservato le sue vittime: quelle delle armi e quelle dell'inchiostro. mi rallegra, e non poco, immaginarmelo, rosso di rabbia, contorcersi.......
RispondiEliminamario
RispondiEliminaGiorgio Bocca da tenente repubblichino ha lasciato dalla sera alla mattina il suo reparto per nascondersi in montagna, vista la mala parata a cui la guerra si stava avviando, il suo reparto non si sa che fine abbia fatto, e se si sia sbandato ho fatto prigioniero dai partigiani. comunque non bisogna odiare se no non la finiamo più.